Quel che neghi ti sottomette, quel che accetti ti trasforma (Jung)
Quel che neghi ti sottomette, quel che accetti ti trasforma (Jung)
Le motivazioni che spingono una persona ad intraprendere un percorso psicoterapeutico possono essere diverse e del tutto soggettive. Ma sulla base della mia esperienza posso dire che la maggior parte delle volte, ci si avvicina solo quando si è raggiunto un livello di disagio ormai non più gestibile autonomamente da compromettere la qualità della vita, propria e altrui.
In realtà indagando più a fondo, nella maggior parte delle situazioni, i segnali per iniziare a seguire un lavoro personale erano già emersi da tempo, ma si è scelto di non prenderli in considerazione, sottovalutando la loro importanza e aggravando il disagio interiore.
Può succedere a chiunque di trovarsi ad attraversare fasi della propria vita in cui siamo più vulnerabili di altre, in cui le nostre fragilità (di cui nessuno è immune) prendono il sopravvento, fasi in cui sentiamo di mettere in discussione tutto, in cui sentiamo che ci manca qualcosa, ma che non sappiamo spiegare, in cui le persone, che fino a quel momento erano i nostri pilastri, improvvisamente sono del tutto inadeguati a dare un senso al “vuoto” che abbiamo dentro…in questa fase così delicata, per poterne uscire indenni c’è solo un modo, avere la pazienza di fermarsi e dare un senso a quello stato di smarrimento. Spesso però questo non avviene, ma si sceglie la strada più dannosa possibile per la nostra persona, si cerca di fare finta che quella sensazione non esista, nascondendola con mille impegni che compaiono all’improvviso e diventano prioritari, da non poterne fare a meno. Tutto ciò ci permette di andare avanti per qualche tempo, fin quando quel “vuoto” non trova nuove strade per manifestarsi, magari utilizzando mezzi più forti di quelli iniziali, sotto forma di ansia, insonnia, varie forme di disturbi somatici, ecc..a poco a poco la qualità della propria vita viene compromessa, tutto sembra gigante e impossibile da affrontare e superare.
Solo a quel punto si pensa alla psicoterapia, come mezzo estremo da utilizzare per uscire da quella situazione, da cui ci si aspetta effetti miracolosi e soprattutto immediati. Mentre la realtà è ben diversa, ci impone un lavoro settimanale, che si protrae per mesi e in alcuni casi anche anni e che ci costringe a fare i conti con i nostri fantasmi, con l’intento di riprendere proprio da quella sensazione che per tanto tempo abbiamo tenuto lontano, dando il via ad un ascolto fino a quel momento negato.
Quanto tempo serva per raggiungere il proprio obiettivo personale di benessere, anche questo non si può sapere, certo è che fin quando ci poniamo questa domanda significa che c’è ancora molta strada da fare. Quando siamo entrati nel pieno del lavoro psicoterapeutico, infatti, le domande che ci poniamo sono ben diverse, la durata non è più tra le priorità, così come i costi, ma piuttosto subentra la curiosità di vedere cosa c’è di nuovo da scoprire dentro di sé durante la nuova seduta.
Dunque se posso dare un consiglio, non aspettate a sentirvi esasperati e senza via di uscita per decidere di intraprendere un viaggio dentro di voi, ma soprattutto fatelo con la voglia di conoscervi e portare fuori tutto ciò che vi spaventa e condiziona e abbiate la motivazione necessaria per aprirvi a nuove prospettive con cui poter affrontare la vita.
“Nessuna notte è tanto lunga da impedire al sole di risorgere” (proverbio giapponese)
Stanno partendo dei gruppi di Training Autogeno ad Iglesias….uno strumento utile per iniziare a prendere contatto con i nostri stati emotivi interiori.
Quando non puoi più smettere di sentire quello che si sta muovendo dentro di te l’unica cosa da fare è lasciarlo libero di essere! https://www.facebook.com/StudiodipsicoterapiaAnnaMancosu/posts/1004969026243087
L’unico modo per poter gestire le emozioni è prendere coscienza della loro esistenza nel momento stesso in cui esse si presentano.
Goleman parla di “autoconsapevolezza” per indicare la continua attenzione che si ha verso i propri stati interiori. Attraverso questa consapevolezza introspettiva la mente è in grado di osservare e studiare l’esperienza acquisita, comprese le emozioni, favorendo una migliore lettura di ciò che avviene a livello inconscio, dei significati dei nostri sogni e delle nostre fantasie, dei simboli che incarnano i nostri desideri più profondi. Tutto ciò ci permette di dare un senso a ciò che proviamo e non restare fermi all’infinito sulle stesse esperienze.
La consapevolezza che possiamo avere delle nostre emozioni permetterà allo stesso tempo anche di comprendere meglio ciò che prova l’altro o quello che ci sta comunicando. Tanto più esperti siamo verso le nostre emozioni, tanto più abili siamo anche nel leggere i sentimenti altrui. Ogni qualvolta ci relazioniamo con qualcuno possiamo anche imparare a conoscere elementi nuovi presenti nelle nostre emozioni, aprendoci semplicemente ad accogliere il messaggio che proviene dall’altro e cercando di comprenderlo.
La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacità di leggere i messaggi che viaggiano su canali non verbali: il tono della voce, i gesti, l’espressione del volto, ecc.
E’ però importante sottolineare che avere maggiore consapevolezza dei propri e altrui sentimenti, non ci permette di avere un controllo su di essi. Ciò che pensiamo o sentiamo nei confronti dell’altro o ciò che da lui ci aspettiamo si insinua e si esprime attraverso gli sguardi che rivolgiamo all’altro, attraverso il sorriso che a nostra insaputa ci illumina o si spegne, attraverso il tono della voce che assumiamo nel parlargli. Dunque“Le emozioni sfuggono al nostro controllo, e trovano generalmente la strada per esprimersi, magari attraverso una smorfia che nelle nostre intenzioni doveva “sembrare” un sorriso, ma che all’interlocutore trasmette il messaggio più corrispondente a ciò che proviamo nei suoi confronti” (Contini; 1992).
Non siamo dunque in grado di controllare le emozioni con la sola volontà. Possiamo controllare l’immagine che essa evoca, il tutto però nell’ambito della coscienza, ma cercare di controllare l’emozione stessa che viene arrecata da quell’immagine è un compito difficile. “Frenare un emozione ci riesce più o meno quanto trattenere uno starnuto” (A. R. Damasio, 2000). Possiamo provare a dissimulare le emozioni e in parte riuscirci, ma non completamente, in quanto, in realtà, ciò che abbiamo fatto è stato quello di mascherare alcune delle manifestazioni esteriori delle emozioni senza riuscire a bloccare i cambiamenti automatici che avvengono dentro di noi. “Le emozioni possiamo educarle, ma non domarle e i sentimenti che abbiamo dentro sono una conferma del nostro insuccesso” (A. R. Damasio, 2000).
Dunque non serve cercare di controllare ciò che sentiamo o proviamo, sia perché esse seguono una loro strada che non può e non deve essere deviata, sia perché, per quanto la logica delle emozioni può apparire irrazionale, essa segue un principio fondamentale, che è quello della sopravvivenza.
Le emozioni ben dispiegate, sono una risorsa per l’essere umano, sono un sistema di appoggio senza il quale l’intero meccanismo su cui si fonda la ragione non funzionerebbe correttamente. Cercare di sopprimere, infatti, tutte quelle emozioni che arrecano uno stato di sofferenza sarebbe un errore, in quanto avrebbe delle conseguenze anche sui processi psichici, esse sono un segnale di cui far tesoro in quanto ci indica che qualcosa dentro di noi è stato “messo in discussione”, e cercare di capire cosa le ha generate è un primo passo per conoscere meglio noi stessi e con noi stessi vivere meglio.
Bibliografia:
Damasio Emozione Coscienza; Adelphi 2002
Contini Per una pedagogia delle emozioni; La nuova Italia
Goleman L’intelligenza Emotiva; Bur Saggi
“Ma i sentimenti sono come i lupi: se intrappolati diventano ancora più feroci e alla fine riescono sempre a fuggire”(J. Hilman)
Sorgente: spunti per un buon viaggio….
La solitudine è uno stato interiore che racchiude in sé una parte luminosa ed una parte ombra. Sarebbe sbagliato attribuire ad essa solo accezioni negative. A seconda delle situazioni può essere infatti vissuta come ritrovamento di sé, un momento utile per ricaricarsi e ripartire, dall’altra può essere visto come un momento di mancanza, perdita o rifiuto da parte dell’altro.
Bisogna dunque riconoscere che esiste una solitudine sana e costruttiva che ci permette di incontrare noi stessi senza paura ed una che può essere patologica e distruttiva, che ci affligge e che ci porta ad allontanarci da noi stessi.
“C’è una solitudine dell’aurora, legata alla nascita, che racchiude in sé i futuri frutti dell’esistenza e una solitudine del tramonto, legata alla morte, che riassume tutte le separazioni, gli abbandoni, i deserti della vita. C’è una solitudine illuminante come momento necessario per la presa di coscienza di sé e dell’altro in piena distinzione e autonomia e una solitudine carica di ombre, dove non c’è spazio per l’incontro, ma ci si sente esclusi e si esclude, si è lontani e si allontana, si è in esilio e si esilia”(Catellazzi).
Bisogna partire dal presupposto che la solitudine sia inevitabile, in quanto insita dentro di noi, bisogna trovare il modo di vivere la parte luminosa di essa e non alimentare l’aspetto ombra.
La capacità di farlo richiede una maturità affettiva che però non tutti hanno acquisito nel tempo.
Winnicott sosteneva che tale capacità deve essere acquisita già nell’infanzia a partire dalla relazione con la madre. Infatti è fondamentale che il bambino possa vivere questa esperienza di solitudine e che il genitore la sappia rispettare.
“Il bambino si allena a stare piacevolmente con sé stesso, impara a gestire il suo mondo interno e organizzare la sua attività senza l’intrusione della madre, anche se avverte la necessità che sia comunque accanto a lui”(Castellazzi).
Il bambino impara in questo modo a stare con i propri pensieri e affetti. L’ambiente genitoriale deve essere accogliente e favorire i momenti di solitudine, permettendo che i vissuti di separazione per il bambino siano graduali e non traumatici, il tutto deve favorire il distacco del bambino dal rapporto fusionale con la madre senza sofferenza. Se queste esperienze positive non sono sufficienti o mancanti, la capacità di restare da soli non si svilupperebbe in maniera adeguata e non permetterebbe l’acquisizione di quel senso piacevole e rigenerante che la sola solitudine e l’incontro con sé stessi ci può dare.
Bibliografia:
Castellazzi V. L. Dentro la solitudine ; Ed. Maggi 2013
Winnicott D. W. Dal luogo delle origini; Cortina Editore 1996