Autore: annamancosu

Disturbo Specifico dell’Apprendimento o Difficoltà di apprendimento?

imageSaper distinguere tra un disturbo dell’apprendimento e una difficoltà dell’apprendimento è essenziale per poter portare avanti un lavoro in grado di tener conto delle reali potenzialità della persona. Portare avanti un lavoro che non consideri tale differenza rischierebbe di essere un fallimento fin dall’inizio.

Spesso ci troviamo a lavorare con pazienti che presentano dei problemi specifici nell’apprendimento, la cui causa primaria non sempre è da ricercare in un deficit cognitivo, responsabile di ciò che viene definito a livello diagnostico come DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento), ma si può trattare di una semplice difficoltà, associata all’acquisizione di strategie di apprendimento che appaiono non adeguate.
Di fondamentale importanza in questo senso viene attribuita alla diagnosi, che assume una funzione differenziale, permettendo di fare luce sulla presenza o meno di disturbi in specifiche aree dell’apprendimento.
Una buon processo diagnostico comprende:

  1. una prima fase in grado di stabilire se è presente una reale problematica legata ad una o più aree di apprendimento (lettura, calcolo e scrittura), riscontrando l’abilità cognitiva che appare limitata;
  2. una fase successiva che richiede un percorso di potenziamento specifico per quell’area;
  3. una terza fase in cui si verifica se tale percorso ha avuto degli effetti.

Sulla base dei risultati ottenuti possiamo avere il quadro della situazione e stabilire in maniera chiara se siamo davanti ad un vero e proprio disturbo o ad una mera difficoltà. Tale differenza assume un’importanza fondamentale, sia perché permette di non attribuire inutili etichette, sia perché ci fornisce delle informazioni preziose sulla tipologia di lavoro da portare avanti.

Un training adeguato alla problematica che si ha davanti, tiene conto nei casi di DSA dei limiti oltre i quali specifiche abilità non possono essere potenziate e non mette la persona nella condizione di vivere la frustrazione di fallimenti inutili, ma cercherà di mettere in risalto le conquiste raggiunte e i punti di forza che possono essere sfruttati per l’acquisizione di nuove strategie. Mentre lá dove si trattasse di una semplice difficoltà, il lavoro di potenziamento sulle abilità responsabili della lettura, piuttosto che del calcolo o della scrittura, sarà in grado di riportare come risultati il superamento di quei limiti che potevano far supporre la presenza di un disturbo, mostrando come siano portatori di abilità che inizialmente potevano apparire nulle.

 

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: proviamo a conoscerli meglio..

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          Parlare di Disturbi dell’Apprendimento significa parlare di persone che, seppur presentino un buon livello intellettivo, hanno un rendimento sul piano scolastico non conforme alle competenze che dovrebbero aver acquisito per la loro età. Si tratta di persone che, nonostante non presentino alcuna forma di disabilità intellettiva, si percepiscono diversi dai loro coetanei e in alcuni casi inferiori, consapevoli non solo della differenza, ma soprattutto della mancanza di quel qualcosa che non gli permette, in ambito scolastico, di poter essere al pari con loro.
Per poter fare una diagnosi di questo tipo è opportuno che non debba esserci disabilità intellettiva, motivo per il quale è fondamentale un’approfondita valutazione delle abilità cognitive attraverso strumenti specifici come la WISC IV e  che venga effettuata al termine  del processo di acquisizione delle abilità di lettura e di scrittura, che avviene all’incirca alla fine della seconda elementare, e del calcolo, alla fine della terza elementare.
Una diagnosi di DSA per poter essere effettuata necessita dunque sia delle informozioni riguardanti il funzionamento intellettivo, il quale permette l’esclusione in primis di una disabilità intelettiva, che la loro integrazione con informazioni riguardanti le abilità specifiche inerenti gli apprendimenti, che vengono raccolte attraverso degli strumenti di misura specifici per la valutazione delle competenze di lettura, piuttosto che di calcolo o di scrittura. Tale integrazione permette di avere un quadro complessivo in grado di individuare oltre che la presenza di specifiche difficoltà di apprendimento, anche quali funzioni cognitive siano responsabilii di ciascuna specifica difficoltà.
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In seguito ad una prima valutazione segue un periodo di potenziamento specifico per ciascuna forma di apprendimento che risulta deficitaria. Se nonostante ciò non si presenta alcuna forma di miglioramento, la diagnosi viene confermata a tutti gli effetti e viene avviato un vero e proprio percorso riabilitativo.
Prima viene intrapreso il percorso, prima viene data la possibilità al bambino di acquisire strumenti e strategie per poter bypassare i “limiti” di quelle specifiche abilità e rafforzare quelle funzioni cognitive che invece in lui risultano dei veri e propri punti di forza. Tuttociò oltre ad avere un effetto sul piano cognitivo, avrà anche delle conseguenze sul piano emotivo, favorendo lo sviluppo di un senso di autoefficacia e autostima che, per chi presenta questo tipo di Disturbo, tendono ad essere seriamente messi alla prova.
Dare la possibilità a tutti i bambini di poter trovare la propria strada a partire dal riconoscimento delle proprie difficoltà, ma soprattutto aiutandoli ad individuare le proprie potenzialità, è il primo compito di chi ha l’onore di lavorare con e per loro.

Tutti devono avere l’opportunità di imparare ed apprendere, nessuno deve sentirsi costretto a limitare la propria conoscenza..

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Incontri tematici “un thè con il sè”

Si tratta di incontri che hanno lo scopo di aiutare ad entrare in contatto con se stessi per imparare a conoscersi meglio,  una forma di condivisione e riflessione su dinamiche che fanno parte del nostro modo di essere e che spesso senza rendercene conto condizionano le nostre scelte…il tutto in un contesto familiare accompagnato da una calda tazza di thė.

Gli incontri si svolgeranno a Villamassargia in Via Sant’Antioco 7 e a Cagliari in Via Piemonte 12

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Quando è il momento giusto per iniziare un percorso psicoterapeutico?

imageLe motivazioni che spingono una persona ad intraprendere un percorso psicoterapeutico possono essere diverse e del tutto soggettive. Ma sulla base della mia esperienza posso dire che la maggior parte delle volte, ci si avvicina solo quando si è raggiunto un livello di disagio ormai non più gestibile autonomamente da compromettere la qualità della vita, propria e altrui.
In realtà indagando più a fondo, nella maggior parte delle situazioni, i segnali per iniziare a seguire un lavoro personale erano già emersi da tempo, ma si è scelto di non prenderli in considerazione, sottovalutando la loro importanza e aggravando il disagio interiore.
Può succedere a chiunque di trovarsi ad attraversare fasi della propria vita in cui siamo più vulnerabili di altre, in cui le nostre fragilità (di cui nessuno è immune) prendono il sopravvento, fasi in cui sentiamo di mettere in discussione tutto, in cui sentiamo che ci manca qualcosa, ma che non sappiamo spiegare, in cui le persone, che fino a quel momento erano i nostri pilastri, improvvisamente sono del tutto inadeguati a dare un senso al “vuoto” che abbiamo dentro…in questa fase così delicata, per poterne uscire indenni c’è solo un modo, avere la pazienza di fermarsi e dare un senso a quello stato di smarrimento. Spesso però questo non avviene, ma si sceglie la strada più dannosa possibile per la nostra persona, si cerca di fare finta che quella sensazione non esista, nascondendola con mille impegni che compaiono all’improvviso e diventano prioritari, da non poterne fare a meno. Tutto ciò ci permette di andare avanti per qualche tempo, fin quando quel “vuoto” non trova nuove strade per manifestarsi, magari utilizzando mezzi più forti di quelli iniziali, sotto forma di ansia, insonnia, varie forme di disturbi somatici, ecc..a poco a poco la qualità della propria vita viene compromessa, tutto sembra gigante e impossibile da affrontare e superare.
Solo a quel punto si pensa alla psicoterapia, come mezzo estremo da utilizzare per uscire da quella situazione, da cui ci si aspetta effetti miracolosi e soprattutto immediati. Mentre la realtà è ben diversa,  ci impone un lavoro settimanale, che si protrae per mesi e in alcuni casi anche anni e che ci costringe a fare i conti con i nostri fantasmi, con l’intento di riprendere proprio da quella sensazione che per tanto tempo abbiamo tenuto lontano,  dando il via ad un ascolto fino a quel momento negato.
Quanto tempo serva per raggiungere il proprio obiettivo personale di benessere, anche questo non si può sapere, certo è che fin quando ci poniamo questa domanda significa che c’è ancora molta strada da fare. Quando siamo entrati nel pieno del lavoro psicoterapeutico, infatti, le domande che ci poniamo sono ben diverse, la durata non è più tra le priorità, così come i costi, ma piuttosto subentra la curiosità di vedere cosa c’è di nuovo da scoprire dentro di sé durante la nuova seduta.
Dunque se posso dare un consiglio, non aspettate a sentirvi esasperati e senza via di uscita per decidere di intraprendere un viaggio dentro di voi, ma soprattutto fatelo con la voglia di conoscervi e portare fuori tutto ciò che vi spaventa e condiziona e abbiate la motivazione necessaria per aprirvi a nuove prospettive con cui poter affrontare la vita.

Rabbia: un emozione che dobbiamo imparare a vivere…

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Ciò che dobbiamo sperare è di rendere la rabbia
un fuoco che cucina anziché un fuoco che brucia
(Clarissa Pinkola Estes)

Spesso sentiamo parlare di emozioni e quanto sia importante darle il giusto ascolto. Ci sono però alcune di esse che per un motivo o per l’altro non ci piacciono, perché culturalmente vengono considerate sbagliate e non va bene sentirle. Una di queste è la rabbia, alla quale principalmente viene data una connotazione negativa e di istinto si cerca di reprimerla o nasconderla o negarla. In realtà bisognerebbe partire dal presupposto che se è presente forse ha un suo significato e motivo, e sarebbe ingiusto non darle il riconoscimento che merita.
È proprio l’eccesso di repressione che porta in alcuni casi ad assumere comportamenti estremi e “violenti”, bisognerebbe permettersi di riconoscerla e darle il giusto spazio, trovando il suo canale di espressione senza rischiare di perderne il controllo. La rabbia nasce da stati d’animo come la frustrazione, l’insoddisfazione o la delusione, se vissuta in maniera positiva, dandole il giusto ascolto può essere trasformata in ribellione e spingere a reagire.
Un ruolo di non poca importanza lo assume chi abbiamo vicino, il quale deve saper accogliere le nostre emozioni dandogli il giusto peso e favorendone lo sfogo in una forma adeguata.

Impariamo a conoscere il Training Autogeno

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Il training autogeno (T.A.) è un metodo ideato da J.H.Schultz di autodistensione che consente di modificare stati psichici e somatici. Attraverso questa tecnica egli ha voluto dimostrare come “la psiche agisca sul corpo”.
La parola Training Autogeno deriva dal greco e significa letteralmente “allenamento” che “si genera” (genos) “da sé” (autos).
Attraverso una concentrazione passiva vengono avviate delle modificazioni spontanee del tono muscolare, della funzionalità vascolare, dell’attività cardiaca e polmonare, dell’equilibrio neurovegetativo e dello stato di coscienza.
Attraverso un preciso e costante allenamento gli esercizi portano a delle modificazioni gradatamente sempre più valide, precise e consistenti.
Praticato saltuariamente con il controllo del terapeuta e quotidianamente da soli, consente di poter offrire ai propri muscoli, ai propri nervi, ai propri organi, alla propria mente uno stato di distensione fisica, di passività psichica, di calma, di benessere sempre più completo e generalizzato.
I cambiamenti fisiologici, attivati durante gli esercizi, prendono il nome di comutazione.
I singoli esercizi possono essere paragonati ai gradini di una scalinata che conduce alla somatizzazione. Questi esercizi conducono progressivamente a una percezione sensitiva ed emotiva del proprio corpo.
Le sensazioni possono essere divise in vari gruppi:
1. sensazioni della superficie corporea (sensazioni di calore, di umidità, di dolore),
2. sensazioni del proprio movimento;
3. sensazioni della posizione nello spazio (sensazioni cinetiche e posturali)
4. sensazioni degli organi;
l’insieme di queste sensazioni costituisce la coscienza del proprio corpo.
Il Training esige l’applicazione incondizionata e costante del raccoglimento interiore (concentrazione). Non utilizza però la volontà cosciente, che opera mediante una tensione attiva, ma richiede un abbandono interiore a determinati esercizi di rappresentazione. È lo stesso che accade la sera quando ci si abbandona passivamente al sonno, in cui non ci costringiamo volontariamente a dormire, in quanto così facendo si rimarrebbe svegli, ma ci lasciamo liberamente trasportare da sensazioni e immagini.
Con l’interiorizzazione concentrativa del training autogeno si mira dunque a raggiungere uno stato di abbandono e ne deriva una comutazione di tutto l’organismo.
In questo modo si potrà raggiungere:
1. un più profondo e rapido recupero di energie
2. un autoinduzione di calma
3. l’autoregolazione di funzioni corporee altrimenti “involontarie” (come la circolazione sanguigna, il battito cardiaco)
4. il miglioramento delle prestazioni (come la memoria)
5. la diminuzione della percezione del dolore
6. l’autodeterminazione (si impara a dirigere i vari processi interni all’organismo verso determinati scopi, es. tendenza ad avere i piedi freddi, decidere di modificare la circolazione sanguigna per riscaldarli)
7. l’introspezione e l’autocontrollo
Gli esercizi che vengono utilizzati durante il Training Autogeno hanno tutti una funzione specifica, così come l’ordine in cui vengono proposti. Ognuno di essi infatti consente di raggiungere la distensione concentrativa in sei settori (o sei stadi), che nell’ordine sono :
MUSCOLI
VASI SANGUIGNI
CUORE
RESPIRAZIONE
ORGANI ADDOMINALI
CAPO
Ognuno di noi potrebbe manifestare dei blocchi in almeno uno di questi settori, a seconda di quale sia, è indicativo di specifiche ferite emotive sulle quali si potrebbe successivamente lavorare con il terapeuta.

BIBLIOGRAFIA:
J.H. Schultz; Il training autogeno ; Feltrinelli

Emozioni: l’importanza di capire cosa avviene dentro di noi

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L’unico modo per poter gestire le emozioni è prendere coscienza della loro esistenza nel momento stesso in cui esse si presentano.

Goleman parla di “autoconsapevolezza” per indicare la continua attenzione che si ha verso i propri stati interiori. Attraverso questa consapevolezza introspettiva la mente è in grado di osservare e studiare l’esperienza acquisita, comprese le emozioni, favorendo una migliore lettura di ciò che avviene a livello inconscio, dei significati dei nostri sogni e delle nostre fantasie, dei simboli che incarnano i nostri desideri più profondi. Tutto ciò ci permette di dare un senso a ciò che proviamo e non restare fermi all’infinito sulle stesse esperienze.

La consapevolezza che possiamo avere delle nostre emozioni permetterà allo stesso tempo anche di comprendere meglio ciò che prova l’altro o quello che ci sta comunicando. Tanto più esperti siamo verso le nostre emozioni, tanto più abili siamo anche nel leggere i sentimenti altrui. Ogni qualvolta ci relazioniamo con qualcuno possiamo anche imparare a conoscere elementi nuovi presenti nelle nostre emozioni, aprendoci semplicemente ad accogliere il messaggio che proviene dall’altro e cercando di comprenderlo.
La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacità di leggere i messaggi che viaggiano su canali non verbali: il tono della voce, i gesti, l’espressione del volto, ecc.

E’ però importante sottolineare che avere maggiore consapevolezza dei propri e altrui sentimenti, non ci permette di avere un controllo su di essi. Ciò che pensiamo o sentiamo nei confronti dell’altro o ciò che da lui ci aspettiamo si insinua e si esprime attraverso gli sguardi che rivolgiamo all’altro, attraverso il sorriso che a nostra insaputa ci illumina o si spegne, attraverso il tono della voce che assumiamo nel parlargli. Dunque“Le emozioni sfuggono al nostro controllo, e trovano generalmente la strada per esprimersi, magari attraverso una smorfia che nelle nostre intenzioni doveva “sembrare” un sorriso, ma che all’interlocutore trasmette il messaggio più corrispondente a ciò che proviamo nei suoi confronti” (Contini; 1992).

Non siamo dunque in grado di controllare le emozioni con la sola volontà. Possiamo controllare l’immagine che essa evoca, il tutto però nell’ambito della coscienza, ma cercare di controllare l’emozione stessa che viene arrecata da quell’immagine è un compito difficile. “Frenare un emozione ci riesce più o meno quanto trattenere uno starnuto” (A. R. Damasio, 2000). Possiamo provare a dissimulare le emozioni e in parte riuscirci, ma non completamente, in quanto, in realtà, ciò che abbiamo fatto è stato quello di mascherare alcune delle manifestazioni esteriori delle emozioni senza riuscire a bloccare i cambiamenti automatici che avvengono dentro di noi. “Le emozioni possiamo educarle, ma non domarle e i sentimenti che abbiamo dentro sono una conferma del nostro insuccesso” (A. R. Damasio, 2000).
Dunque non serve cercare di controllare ciò che sentiamo o proviamo, sia perché esse seguono una loro strada che non può e non deve essere deviata, sia perché, per quanto la logica delle emozioni può apparire irrazionale, essa segue un principio fondamentale, che è quello della sopravvivenza.

Le emozioni ben dispiegate, sono una risorsa per l’essere umano, sono un sistema di appoggio senza il quale l’intero meccanismo su cui si fonda la ragione non funzionerebbe correttamente. Cercare di sopprimere, infatti, tutte quelle emozioni che arrecano uno stato di sofferenza sarebbe un errore, in quanto avrebbe delle conseguenze anche sui processi psichici, esse sono un segnale di cui far tesoro in quanto ci indica che qualcosa dentro di noi è stato “messo in discussione”, e cercare di capire cosa le ha generate è un primo passo per conoscere meglio noi stessi e con noi stessi vivere meglio.

Bibliografia:

Damasio Emozione Coscienza; Adelphi 2002

Contini Per una pedagogia delle emozioni; La nuova Italia

Goleman L’intelligenza Emotiva; Bur Saggi

SAPER VIVERE LA SOLITUDINE

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La solitudine è  uno stato interiore che racchiude in sé una parte luminosa ed una parte ombra. Sarebbe sbagliato attribuire ad essa solo accezioni negative. A seconda delle situazioni può essere infatti vissuta come ritrovamento di sé, un momento utile per ricaricarsi e ripartire, dall’altra può essere visto come un momento di mancanza, perdita o rifiuto da parte dell’altro.
Bisogna dunque riconoscere che esiste una solitudine sana e costruttiva che ci permette di incontrare noi stessi senza paura ed una che può essere patologica e distruttiva, che ci affligge e che ci porta ad allontanarci da noi stessi.
“C’è una solitudine dell’aurora, legata alla nascita, che racchiude in sé i futuri frutti dell’esistenza e una solitudine del tramonto, legata alla morte, che riassume tutte le separazioni, gli abbandoni, i deserti della vita. C’è una solitudine illuminante come momento necessario per la presa di coscienza di sé e dell’altro in piena distinzione e autonomia e una solitudine carica di ombre, dove non c’è spazio per l’incontro, ma ci si sente esclusi e si esclude, si è lontani e si allontana, si è in esilio e si esilia”(Catellazzi).
Bisogna partire dal presupposto che la solitudine sia inevitabile, in quanto insita dentro di noi, bisogna trovare il modo di vivere la parte luminosa di essa e non alimentare l’aspetto ombra.
La capacità di farlo richiede una maturità affettiva che però non tutti hanno acquisito nel tempo.
Winnicott sosteneva che tale capacità deve essere acquisita già nell’infanzia a partire dalla relazione con la madre. Infatti è fondamentale che il bambino possa vivere questa esperienza di solitudine e che il genitore la sappia rispettare.
“Il bambino si allena a stare piacevolmente con sé stesso, impara a gestire il suo mondo interno e organizzare la sua attività senza l’intrusione della madre, anche se avverte la necessità che sia comunque accanto a lui”(Castellazzi).
Il bambino impara in questo modo a stare con i propri pensieri e affetti. L’ambiente genitoriale deve essere accogliente e favorire i momenti di solitudine, permettendo che i vissuti di separazione per il bambino siano graduali e non traumatici, il tutto deve favorire il distacco del bambino dal rapporto fusionale con la madre senza sofferenza. Se queste esperienze positive non sono sufficienti o mancanti, la capacità di restare da soli non si svilupperebbe in maniera adeguata e non permetterebbe l’acquisizione di quel senso piacevole e rigenerante che la sola solitudine e l’incontro con sé stessi ci può dare.

Bibliografia:

Castellazzi V. L. Dentro la solitudine ; Ed. Maggi 2013

Winnicott D. W. Dal luogo delle origini; Cortina Editore 1996

La discesa verso la conoscenza di Sè

Scegliersalvador-dali-galae di entrare in contatto con le parti più profonde della nostra “persona” è un impresa non facile. Richiede la capacità di lasciarsi dietro tutte quelle certezze che fanno parte del mondo esterno, i continui stimoli con i quali ci relazioniamo ogni giorno e condizionano i nostri comportamenti. Bisognerebbe abbandonarsi ad una realtà che non segue le logiche della ragione, ma fatta di stati emotivi, più o meno intensi, privi di ogni filtro difensivo. Carotenuto sosteneva che nella discesa verso l’autoconoscenza troviamo le emozioni “guide polari in grado di indicarci la strada migliore da seguire, quella più irta e travagliata, ma sicuramente più feconda per l’arricchimento e la maturazione della propria personalità”.
Bisogna dunque prendere coscienza delle sfumature emotive che colpiscono la nostra anima. Esse se adeguatamente riconosciute e ascoltate sono degli indicatori utili da seguire per meglio conoscere e scoprire aspetti della nostra personalità in precedenza sconosciuti.
L’impatto non sempre è piacevole, motivo per il quale spesso si evita di entrare in contatto, attivando meccanismi difensivi più o meno consci che creano una barriera di separazione tra il mondo esterno a noi a quello interiore.
Jung riteneva che guardare dentro se stessi permetta di ampliare la propria coscienza e indebolire il potere dell’inconscio. Per poter raggiungere questo stato è necessario però perdere l’equilibrio psichico fino a quel momento raggiunto.
La perdita di tale equilibrio corrisponde alla perdita di alcune parti dell’Io, il quale secondo Jung, rappresenta solo un aspetto della personalità, ossia quello conscio. Per poter avviare un reale cambiamento bisogna dunque sacrificare questa parte e accedere a quegli aspetti di sé che sono celati alla nostra coscienza, permettendo di acquisire un maggiore controllo su di essi.
L’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e di quelle parti di cui non si era a conoscenza favorisce la riorganizzazione della personalità, permettendo di dare alle sensazioni interne un loro significato e favorendo quel processo che Jung aveva a suo tempo definito di individualizzazione.

Bibliografia:

Carotenuto A. Il tempo delle emozioni; Bompiani 2003

Jung C.G. L’Io e L’inconscio; Boringhieri 1948

Immagine:

Salvador Dalì; 1951